IL PASSO DELLA GIOVINEZZA.
11 DOMANDE SULLA POESIA AD ALFREDO DE PALCHI
(a cura di Giuseppe Panella)
Questa breve intervista cui ho voluto costringere
Alfredo De Palchi in qualità di introduzione ai saggi che ho avuto il piacere e il privilegio di scrivere su di lui è soltanto un’occasione per conoscere dalla sua viva voce che cosa pensa della poesia e soprattutto che cosa considera ancora oggi importante in ciò che ha scritto in qualità di poeta. Le sue vicende biografiche, le sue “storie di fondazione”, perfino le sue riflessioni sulla vita quotidiana e i rapporti interpersonali scompaiono e perdono importanza di fronte alla sua produzione in qualità di scrittore. E’ alla sua straordinaria logica emotiva di espressione lirica che De Palchi delega la sua volontà di parola e soprattutto la sua capacità, sia pur rude e frantuimata, di comunicazione interiore
1. Leggere e scrivere sono le due attività fondamentali nella formazione e nella costruzione dell’identità di un poeta. Quale delle due ha avuto maggiore importanza nella tua nascita di scrittore? Per te, in sostanza, è stato più importante leggere o provare a scrivere (ovviamente il tutto ricondotto ai limiti delle possibilità di un adolescente)?
Da ragazzino tutto cominciò dalla lettura: di fumetti, di libri d’avventura, del romanzo a dispense “L’uomo che ride” di Victor Hugo, dell’”Arena”, il giornale di Verona e della cronaca della provincia. Più tardi, a diciotto anni, aprii libri seri, e senza preparazione un giorno mi capitò in mano in italiano “The Sound and the Fury” di William Faulkner; libro che sin dall’inizio mi sconbussolò, sentivo grande poesia realistica nella lettura difficile. Sono alcuni esempi iniziali. Sapevo della poesia di Angiolo Silvio Novaro letta nell’Abbecedario delle elementari che mi fornì l’idea della figura del Poeta, in generale, di possedere tanta bellezza fisica, intoccabile. Per anni pensavo il Poeta fosse fisicamente bellissimo, fino a che vidi una immagine di Leopardi. L’ideale mi crollò addosso e anche dentro. Dovevo raggiungere al ventesimo compleanno prima di provare, istigato dal mio maestro Ennio Contini, a scrivere poesia
2. La poesia – mi pare di capire dalle nostre conversazioni newyorkesi – non è stata la tua prima scelta artistica. Hai provato a suonare il violino, a mettere in scena testi teatrali, a dipingere, a scolpire. Vuoi raccontare questi tuoi esordi di giovane artista prima della scoperta della poesia?
Si tratta di prove intuitive. La mia famiglia sapeva leggere e scrivere da ignorante. Io crescevo con idee “strane”, come mi accorsi più avanti con gli anni; ero un ragazzino timido ignorante ma creativo. Dai sei ai dodici/tredici anni creavo statuette di cera; facevo acquarelli su carta normale; da primitivo costruivo scene di cartone e costumi di carta tirante per il teatrino che avevo fatto sul fienile con una grande vecchia specchiera dentro la piccola stalla vuota: alla domenica pomeriggio ragazzini e ragazzine pagavano una palanca per sedere per terra e vedere come su uno schermo i recitanti riflessi nella specchiera; e andavo alla scuola di musica Antonio Salieri (mio compaesano) a imparare il violino. Mio nonno era l’unico che mi dicesse sempre bravo bravo. Il 25 aprile 1945 la mia casa venne assalita dalla marmaglia, rubando tutto quello che poteva portare via, il violino, le mie cose di ragazzo, e persino le finestre. Tutto questo rimase nel mio sottofondo poetico a venire.
3. Quando hai cominciato a scrivere testi lirici ti sei posto il problema della lingua da usare?
O le immagini e le parole poetiche che hai scelto ti sono scaturite (quasi) spontaneamente dalla mente? Io personalmente non credo troppo nella spontaneità dell’ispirazione e penso che essa, in certa misura, vada stimolata accortamente a ridosso di eventi particolari e singolari (quelle che Montale, ad esempio, chiamava “occasioni”). E’ nota (e mi sembra inopportuno ritornarci in questa sede) la dimensione esistenziale in cui è maturata la tua scelta lirica. Ma sarebbe bastata se non ci fosse stata una predisposizione “naturale” ad essa?
No, non avevo la minima idea di un linguaggio. Successe che scrivendo una immagine o un pensiero sulla mia precedente esperienza o sulla realtà del momento arrivavo a una fine del testo, e nel mentre il soggetto mi dettava la forma o lo stile. Quindi l’ispirazione posso dire che per me sia ancora una immagine o un pensiero. “La dimensione esistenziale” non basterebbe senza la predisposizione “naturale”. Diversamente vediamo il meccanismo artificiale dell’armata di versaioli.
4. Nei tuoi primi testi lirici (quelli della Buia danza di scorpione, ad esempio) le immagini predominano sulla dimensione concettuale. Ed è giusto così. Ma io trovo che quest’ultima (la dimensione del “pensiero poetante” – per dirla con Martin Heidegger che analizza la poesia di Friedrich Hölderlin) ti contraddistingua fin dall’epoca delle evoluzioni oscure dello Scorpione.
Non parlo ovviamente di filosofia nel senso specialistico del termine ma di filosofia in atto, presente implicitamente nelle vicende e nelle intuizioni esistenziali descritte nella tua scrittura. Sei d’accordo con l’idea che mi sono fatto di te come poeta lirico che cerca la verità nella profondità del reale e non si limita a descriverne gli aspetti di superficie?
Hai azzeccato in pieno la mia poetica. Sono d’accordo. Per non ripetere in altre frasi quello che hai già suggerito, chiudo in senso diverso con le ultime tue parole: chi non “cerca la verità nella profondità del reale” ma “si limita a descriverne gli aspetti di superficie” è, ripeto, semplicemente un versaiolo.
5. La tua poesia sembra assoluta e inospitale, priva di squarci di azzurro e di speranza.
In Bag of Flies (New York 1961), una delle sezioni più significative di quello che a tutt’oggi è il tuo libro di poesie più noto (Sessioni con l’analista, il volume che uscì nel 1967 per Mondadori nella collana “Il Tornasole” di Vittorio Sereni) tu scrivi, ad esempio: “… qui / esilio // migliore di quello vissuto al paese / con la sua crudeltà indecente / quotidiana, le prigioni e le mie impossibili/ fughe / è a questo che penso se qualcuno / mi parla di rivoluzione”. Il paese contrapposto all’Italia natia è l’America dove sei approdato in quegli anni. Ma anch’essa è stata un luogo d’esilio oppure in essa si sono aperte delle possibilità (anche poetiche) impossibili a pensarsi durante il tuo periodo europeo?
Sono cosciente della mia poesia ostica. Un motivo importante è che non cerco la musicalità epidermica, l’armonia musicale deve salire dalla brutalità del mio linguaggio. Chi la riceve sente la verità reale (non finzione) con delle cacofonie non stonate.
L’America è il mio paese d’esilio, dove abito non integrato, tuttavia per osmosi mi ha aperto a
possibilità poetiche che in Europa non avrei mai percepito. Credo.
6. A differenza delle altre tue raccolte di poesia, La buia danza di scorpione non è mai stato pubblicato in italiano (prima della sua uscita in Paradigma. Tutte le poesie 1947-2005, Milano, Mimesis/Hebenon, 2006) ma solo in inglese con testo a fronte, per le cure traduttorie di Sonia Raiziss. C’è un motivo particolare per questa scelta oppure si è trattato solo di un caso “sfortunato”? Cosa pensi oggi dei tuoi esordi di poeta (in gran parte) autodidatta? Come esordio io continuo a considerarlo di straordinaria maturità eccessiva, ma tu ? Quello che mi sorprende in esso è la lingua rocciosa e aspra da te scoperta in questa occasione e la mancanza di scrupoli sentimentali che dimostri usandola…
Innanzi tutto grazie del complimento. “La buia danza di scorpione” l’avevo inserita nel volume
“Sessioni con l’analista”. Prima della stampa decisi di prelevarla perché decisi che doveva stare da sola per il linguaggio, il soggetto, la forma e lo stile. Piaccia o non è un’opera sconosciuta, insieme ad altri miei lavori tra il 1947 e il 1951 e fino ad oggi, che rimane negletta, e che per la sua novità totale porterebbe onore a un grande editore. Come lavoro di esordio, di un autodidatta, è potente; sin dalle prime parole mi accorsi che esse dovevano essere rocciose e aspre, e prive di sentimentalismi. E nel frattempo mi capitava di leggere poesia dolciastra per irritarmi. Mi capita ancora.
7. Costellazione anonima esce prima in inglese (per gli Xenos Books, ora a Las Cruces, New Mexico, nel 1997) e poi in italiano (per le Edizioni Caramanica di Marina di Minturno) l’anno dopo. C’è stata una ragione particolare per questo ritorno alla lirica in italiano? O non si è trattato di un recupero della lingua natia quanto della prosecuzione di una ricerca portata avanti fino ad allora soltanto in terra americana? Per intenderci – tu hai mai scritto direttamente in inglese o la tua poesia è sempre stata italiana come espressione linguistica?
Per “Costellazione anonima” non c’era una ragione americana e una italiana. Il fatto era che non proponendo il lavoro a nessun editore italiano ero senza un editore disposto ad accogliermi a braccia aperte. Siccome io ho solo scritto poesia nella mia lingua, e siccome il lavoro era già tradotto, lo consegnai con il testo a fronte a Xenos Books che sin dalla edizione di “La buia danza di scorpione “ con testo a fronte è il mio piccolo grande editore che non chiede soldi. Non ne fa ma neanche ne chiede. Con la pubblicazione dell’originale in Italia “non si è trattato di un ritorno alla lirica in italiano . . . né di un recupero della lingua natia”. Pochi si sono accorti della sua esistenza. Quel libro è cresciuto totalmente in italiano in America. La mia scrittura è italiana.
8. In Paradigma, la raccolta del 2001 uscita sempre da Caramanica Editore e poi rifusa nel maggior volume che porta lo stesso titolo del 2006, scrivi con forte determinazione stilistica: “Dichiara il sistema del silenzio, / sporca la pagina con la goccia di letame, / che ogni crescita spunti / lentamente dai solchi arroventati / mentre affondo i piedi nel germoglio / tra le zolle“.
In che modo questi versi corrispondono (se poi corrispondono, a tuo avviso) a una tua (possibile) dichiarazione di poetica? E, a proposito, tu credi nella validità (e nella necessità) delle dichiarazioni di poetica da parte di uno scrittore?
Dell’uscita di quel “Paradigma” non si è accorto nessuno. Caramanica Editore, che non mi chiese soldi ma neanche gliene offersi, deve averne stampate pochissime copie perché dopo avermene mandate dieci copie d’autore nessuno lo trovò distribuito in nessuna libreria. Le mie dieci copie le mandai in giro, mi pare abbia avuto l’onore di un paio di recensioni, e la sola copia rara che io posseggo l’ho rubata ad un amico che non se ne è ancora accorto della mancanza. Di nuovo grazie per aver scelto dei versi da questa raccolta che paiono destinati a una possibile “dichiarazione di poetica”. Io non c’entro, infatti non credo in tali dichiarazioni. Le lascio fare ai versaioli. Oppure al gigante adolescente Rimbaud.
9. Le viziose avversioni (uscito in inglese con testo a fronte nel 1999 per gli Xenos Books) raccoglie testi scritti fin dal lontano 1951 e lasciati evidentemente nel cassetto). La ragione di questo apparente oblio risiede nella tematica apertamente erotica delle poesie che lo compongono oppure le liriche di questa raccolta sono state volutamente messe da parte fino a comporre un quadro adeguatamente chiaro e omogeneo della ricerca linguistica ed esistenziale in essa contenute?
A me pare che in questo libro la sessualità come ricerca della verità nel corpo femminile non sia scevro dalla volontà di farne una metafora (bellissima e spietata) dell’intera esistenza umana. “Nascita, copulazione e morte” – conclude Thomas S. Eliot in Sweeney Agonistes (un suo testo drammatico che segue La Terra desolata) per sintetizzare la natura imperfetta della vita degli uomini e la necessità del suo superamento in chiave metafisico-religiosa. Ma queste stesse categorie dell’esistenza umana, egualmente e drammaticamente espresse dalla tua poesia, mi sembrano invece il segno di un radicamento tutto immanente (se mi passi il termine filosofico!) nella vita e la sua conferma come unica possibilità dell’agire umano. In sostanza, mi pare che per te non ci sia un orizzonte religioso di riferimento e che quello che spiega la permanenza dell’uomo sulla Terra sia il suo essere corpo capace di sentire e di amare – una visione lucida e distaccata ma disincantata. Credi sempre nel sesso e nel sentimento amoroso come parola-chiave dell’agire degli uomini?
Ogni sorta di poesia era posta nel mio particolare cassetto, non avevo e non cercavo uno sbocco, impossibile nelle riviste italiane. Le liriche erano scritte senza che io pensassi a una futura raccolta di poesia erotica. La scrivevo come ne scrivevo d’altro tenore––il libro quanto gli altri li ho messi insieme, omogenei, dopo quarantanni di obbligatoria attesa.
Non è strano, indubbiamente non per me, che la mia sessualità di dodicenne abbia intuitivamente trovato “la verità nel corpo femminile”. D’allora non ebbi mai dubbi. Col tempo ne feci una religione personale; infatti il mio immaginario si appropriò della iconografia cristiana (benche io non sia credente) per darle anche un valore di spiritualità. Sì, “credo nel sesso”, oltre il senso per procreare e, evitando di allacciare l’umanità che nel totale mi schifa, “nel sentimento amoroso”: la mia poesia erotica-amorosa è spiritualità.
10. Contro la mia morte (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007) è la tua ultima opera pubblicata. In un testo particolarmente bello di essa, dici della Morte: “Saprò negarti senza una parola, / gli occhi entreranno profondi nelle occhiaie / dicendo le verità indivisibili della mia morte” (p. 12). Dopo il sesso, la morte sembra essere diventata uno dei leit-motiv della tua poesia. Che atteggiamento hai oggi nei confronti del tempo che inesorabilmente passa? Odio, amore o indifferenza?
È una plaquette-omaggio, una sorpresa per me, di venti testi “Contro la mia morte” come chiarisce il titolo. Nel 2005-6 ebbi momenti fisicamente sensibili, mi accorgevo che la mia debolezza fisica peggiorava, mi accorgevo che la “meretrice” entrava e usciva in fretta dalla mia camera. Insomma, si faceva capire. Ma io colsi con sfida quelle scorrerie. Non mi lasciai prendere dal panico, reagii con prepotenza e sarcasmo perché non mi sentivo pronto per l’eterno, e scrissi i testi con ispirato entusiasmo. Arrivato al ventesimo testo, sapendo che ne avrei scritti chissà quanti già ingranati nel solco, mi dissi basta, il resto sarebbe facile.
Certo, l’età che avanza anche in un carattere solare come il mio (dalla mia scrittura in generale non sembra, eppure. . .) di tanto in tanto fa capolino la morte che non mi spaventa, però mi fa dire: con miliardi di persone perché io, de palchi. Quindi reagisco senza odio né amore né indifferenza. Vivo alla giornata. Seguo un ritmo pacato, più o meno sicuro con l’assistenza del medico quando necessita, anche quest’anno scadente ma compensato dalla mia solarità e da ispirazioni di come percepisco ancora in scrittura la morte.
11. E da ora in poi cosa succederà ? Quali sono i programmi futuri di Alfredo De Palchi come poeta e lettore ed editore di poesia? So bene che continui a scrivere con accanimento e passione e che le Chelsea Editions sono sempre pronte a diffondere la cultura poetica italiana in America. Il fatto è però che continui ad essere un outsider in Italia dove la tua poesia è troppo poco conosciuta ancora. Consideri questo fatto un limite alla tua attività di scrittore oggi? O ti sta bene essere ancora un “giovane poeta di ottantuno anni” in attesa di una valutazione adeguata?
Succede che coninuo a scrivere, poco come di solito, concentrandomi su testi , brevi come di solito, che continuo a dedicarmi senza la preoccupazione, come di solito, se ho lettori della mia poesia. Io ho sempre creato qualcosa per soddisfare alfredo de palchi, poi, chi mi vuole. Durante gli ultimi mesi del 2007 compilai la silloge inedita di diciannove testi “Foemina tellus”.
Per quanto riguarda “Chelsea Editions” (editrice non per profitto), che non si fa pagare, che pagha i traduttori, io sono agli sgoccioli. L’America è un continente artistico-letterario sciovinista. I libri escono e raramente uno è recensito in una delle numerose riviste. I professori d’italianistica che ricevono il catalogo non propongono un titolo alle biblioteche delle loro università. Se perfino i professori, che dovrebbero e potrebbero, se ne fregano, io faccio altrettanto: pubblicherò le opere accettate e non mi interesserò mai più della poesia italiana in originale e in versione.
Sono un “outsider” per vari motivi: la mia poesia è originale sin dall’inizio; sono pochi coloro che l’accettano; saranno tantissimi coloro che la rifiutano; l’impressione è che per non aver fatta l’obbligatoria scelta ideologica popolare per decenni mi sono trovato emarginato; per non aver fatto circolare la mia opera ai vari premi; ma soprattutto colpa mia personale per non avermi proposto a piccoli e grandi editori (non parliamo delle riviste) dai quali pretendevo e ancora pretendo che abbiano una curiosità verso il mio lavoro. Infine, quel poco che sono riuscito a combinare mi è stato richiesto, e me lo sono meritato con immensa fatica. Il mio orgoglio di solitario rimane, che la mia poesia sia poco conosciuta non è un fatto che limiti la mia attività di scrittore. Caso mai è una vergogna per gli editori che non me la chiedono neanche da considerare, per chi la rifiuta e per chi rifiuta di leggerla. Quante volte devo dire che non c’è una parola falsa nella mia opera. Mi sta benissimo di essere il “giovane poeta oltreottantenne” ancora da scoprire e da valutare. Fatti avanti Giuseppe Panella, sei tra i pochissimi che finiranno con i conti giusti.